Triade Capitolina
La Triade Capitolina (Inv. n. 80546), recuperata dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 1994 a Livigno (Sondrio), è stata traumaticamente dissotterrata nel 1992, nel corso di devastanti scavi clandestini, in località Quarto Campanile all’interno della Tenuta dell’Inviolata, così detta perché appartenuta dal 1435 alla chiesa romana di Santa Maria in Via Lata.
Il rinvenimento avvenne in una villa rustica dell’Agro Tiburtino, il territorio dell’antica Tibur (oggi Tivoli), compreso fra le vie Tiburtina e Nomentana e attraversato dal percorso secondario, della via Tiburtino-Cornicolana (da Corniculum, oggi Montecelio).
Il famoso gruppo scultoreo della Triade, in marmo lunense, rappresenta le tre maggiori divinità del mondo romano sedute su un trono cerimoniale, mentre vengono incoronate da altrettante piccole Vittorie alate. Con forte intento didascalico ciascuna divinità è contraddistinta dall’animale sacro e dagli attributi che le sono propri. La tripartizione del gruppo è sottolineata dai bassi suppedanei o tappeti su cui le tre figure poggiano i piedi e dai due sostegni centrali della spalliera che, nella visione frontale, isolano le figure.
Al centro è Giove, con busto nudo e gambe avvolte nel mantello che si ripiega sulla spalla sinistra; la testa, coronata di foglie di quercia, ha barba e capigliatura voluminose dai lunghi riccioli, espressione, secondo l’iconografia tradizionale greca e poi romana, della possanza del dio. Con la mano destra, poggiata in grembo, regge il fascio di fulmini e con la sinistra sollevata (oggi mancante) impugnava lo scettro; ai piedi è l’aquila con le ali aperte, di cui Giove era solito, nelle sue imprese terrene, assumere le sembianze. Alla destra siede la sposa Giunone, contrassegnata dal pavone nell’atto di fare la ruota; vestita di un chitone allacciato sotto il seno, coperta da un mantello, diademata e incoronata di petali di rosa, tiene nella sinistra lo scettro, mentre con la destra reggeva la patera. Sul lato opposto è Minerva, anch’essa indossante il chitone altocinto, fissato sulle spalle da fibule, e con le gambe rivestite del mantello; elmata, affiancata dalla civetta e coronata di alloro, stringeva con la sinistra l’asta e con la destra sfiorava l’elmo corinzio, forse nel gesto dell’epifania.
L’opera è il prodotto di una bottega di scultori dell’Urbe chem nonostante la ricchezza di dettagli, raggiungono un mediocre livello artistico. Recenti osservazioni condotte dall’archeologo dott. Zaccaria Mari, in occasione del trentennale del rinvenimento, permettono di riflettere sulla lavorazione mai stata ultimata dell’opera, come dimostrano i piedi non ben definiti di Minerva e la mancata rifinitura del pavone (privo del piumaggio) e del trono cerimoniale.
La datazione è stata fissata tra il tardo periodo antonino (160-190 d.C.) e la prima metà del III secolo, sulla base di alcuni tratti stilistici, quali la resa dei volti, delle capigliature e del panneggio, e degli accentuati effetti chiaroscurali dovuti a un intenso e meccanico uso del trapano che ha generato profondi sottosquadri.
L’importanza del gruppo risiede nello schema compositivo, derivante da un ignoto prototipo solo ipoteticamente rapportabile all’immagine ufficiale dei simulacri del Capitolium di Roma e di altre città dell’Impero, schema che è un unicum nella plastica a tutto tondo.